di Giovanni Pivetta
8 Febbraio 2019
Il futuro del Pianeta è nelle nostre mani, ma appartiene alle prossime generazioni

Non sono mai stato un ambientalista. Non mi considero nemmeno un naturalista. Ho vissuto quasi tutta la mia vita in città, godendomi i piaceri del consumismo con grande spensieratezza, sono figlio del miracolo economico italiano degli anni ’60. Sono andato raramente in campeggio, non volentieri comunque, e mentre ho sempre pensato che fosse fondamentalmente rispettare l’ambiente e praticare la solidarietà, ho anche accettato l’idea che ci fosse un compromesso tra crescita economica e costi per la natura – e ho pensato, beh, nella maggior parte dei casi che avrei optato per la crescita.

Anche se il termine “comunicatore ambientale” potrebbe essere appropriato o conveniente, nel senso che effettivamente qualcosa cerco di fare per la tutela dell’ambiente nel mio piccolo per informare sull’efficienza sostenibile e fermare il consumo di suolo indiscriminato, mi sembra che l’incostanza e la contradditorietà del mio stile di vita sia tale però da vanificare il mio essere consapevole e attivo.

Non ho intenzione di macellare personalmente una mucca per mangiare carne, ma non sto nemmeno per diventare vegano. In questo modo – Io, sono come ogni altro italiano che ha trascorso la propria vita fatalmente compiacente, e intenzionalmente illuso, sul cambiamento climatico, che non è solo la più grande minaccia che la vita umana sul pianeta abbia mai affrontato, ma una minaccia di una categoria e scala completamente diversa. Questa è la scala della vita umana stessa.

In rappresentanza di nessuno io mi accuso formalmente di viltà, perché se mi faccio prendere dall’indignazione e dal rifiuto senza immaginare un mondo diverso da quello che appare oggi infrango il sacro patto che vuole che ogni generazione lasci ai figli un Mondo migliore di quello che ho, a mia volta, ereditato. La creatività è un dovere e si libera, perché ognuno è creativo se si da il permesso di esserlo …  almeno qui osiamo, su!

L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio dell’intera umanità. Ed è responsabilità di ognuno di noi; una responsabilità che non può che essere trasversale e c’è bisogno d’informazione, di altruismo, di darsi una svegliata ma soprattutto di rispetto e di consapevolezza della necessità di un cambiamento da parte di tutti.

Quindi non basta dire che difendo l’ambiente: l’ambiente si difende con le opere prima che con le parole. Il problema in fondo siamo noi, noi uomini e non solo le Istituzioni. Cerchiamo di agire in modo tale che gli effetti della nostra azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana.

Il riscaldamento globale può sembrare una leggenda che si perde nella notte dei tempi e che infligge una sorta di punizione biblica dall’Antico Testamento ai pronipoti di coloro che sono responsabili, dal momento che è stata la combustione del carbone nell’Inghilterra del XVIII secolo ad accendere la miccia di tutto ciò che ha seguito. Ma questa è una favola sulla malvagità storica che assolve quelli di noi vivi oggi – e ingiustamente. La maggior parte della combustione è arrivata negli ultimi 25 anni.

Non possiamo dimenticare che il PIL mondiale del petrolio, non conosce crisi, e si attesta ogni anno sui 3.000 miliardi di $, il che supera il PIL di oltre 131 Stati su 196 del Pianeta e il tutto senza contare i miliardi di barili di petrolio stoccati quali riserve auree, ininterrottamente integrate, in ogni Paese del mondo.

E che per produrre gli alimenti di cui ci nutriamo ricorriamo a concimi e pesticidi derivati dal petrolio; quasi tutti i materiali da costruzione che usiamo – cemento, plastiche eccetera – sono derivati dai combustibili fossili, così come la stragrande maggioranza dei farmaci con cui ci curiamo; gli abiti che indossiamo sono, in massima parte, realizzati con fibre sintetiche petrolchimiche; trasporti, riscaldamento, energia elettrica e illuminazione dipendono quasi totalmente dai combustibili fossili.

Ma la Terza rivoluzione industriale ci offre la speranza di poter raggiungere una nuova era sostenibile post carbonio, evitando la catastrofe del cambiamento climatico. Disponiamo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, e delle linee guida per renderlo possibile. Ora la questione è essere disposti a riconoscere le opportunità economiche che ci attendono e trovare la determinazione per coglierle in tempo.

“L’età della pietra non è finita per mancanze di pietre e l’età del petrolio non finirà per il prosciugamento dei pozzi” e la geopolitica del petrolio cambia l’ordine mondiale. (Ahmed Zaki, ministro del petrolio saudita dal 1962 al 1986)

school strike for climate action, fridays for future

Clicca per ingrandire I ragazzi di tutto il mondo scioperano per il clima

Perché c’è chi non crede al cambiamento climatico? Anche se le prove sono schiaccianti, in molti negano i rischi che il nostro pianeta sta correndo. Eppure gli studi sono moltissimi, le prove schiaccianti, gli scien­ziati concordi e le conseguen­ze già visibili. Eppure, molte persone nel mondo ritengono che il cambiamento climatico sia un’invenzio­ne, o perlomeno che si tratti di un evento non imminente e tutto sommato meno pericoloso di quanto non indichino i dati.

La risposta si trova dentro di Noi. Per attivare il nostro sistema di allar­me, non basta che uno stimolo sia perce­pito come generalmente negativo, deve anche costituire un pericolo. Il cambiamento climati­co non scatena simili reazioni perché ci appare distante, sia nel tempo sia nello spazio. Gli effetti sull’ambiente delle nostre azioni non sono immediati, e forse non saremo neppure noi a subir­li.

An­che se mancano ormai pochi anni al 2050 – data entro la quale, secondo molti scienziati, bisognerebbe ridurre drasticamente le emissioni di gas serra in atmosfera pena la crescita esponenziale di eventi climatici estremi e, in generale, di disastri naturali provocati dal riscaldamento globale – quella data è percepita an­cora come lontana, così come distanti geograficamente ci appaiono il Polo Nord, il cui ghiaccio si sta sciogliendo, e il Sudest asiatico, sconvolto dalle inon­dazioni o la desertificazione dell’Africa sub-sahariana e del Sahel.

Questa “distanza percepita” ci spinge a non credere a previsioni tan­to nefaste, come sono quelle sugli effetti dei cambiamenti climatici, atteggiamento amplifica­to dal meccanismo difensivo della ri­mozione, che usiamo inconsciamente in molti contesti per scacciare le preoccupazioni.

Ma c’è dell’altro. Nel caso del cambiamento climatico, fatichiamo a capire l’esatto legame causale tra decisioni passate e l’attuale scenario crescente di fenomeni di caos climatico. Per questo il rischio che possano verificarsi eventi catastrofici dovuti al surriscaldamento ci appare molto piccolo.

A influenzare il giudizio c’è anche il fatto che il cambiamento cli­matico non riguarda più il singolo, ma il gruppo. Qui non c’è il rischio che un fulmine mi colpisca, ma che un’inonda­zione ci travolga tutti. E questo per il no­stro cervello fa la differenza. Lo stare insieme modifica la percezione del ri­schio, riducendola. Prudenti da soli, in gruppo ci sentiamo più sicuri e diventia­mo più audaci.

Tutto ciò con­tribuisce a sottovalutare la minaccia del riscaldamento globale. Va aggiunto poi che i ragionamenti su questo tema sono spesso astratti e non di immediata com­prensione. Per questo, chi ascolta può essere persuaso a considerarle informazio­ni prive di fondamento, se non addirittu­ra manipolate.

Il fatto di percepire il cambiamento cli­matico come un problema collettivo spinge anche a credere che le soluzioni siano di esclusiva competenza delle isti­tuzioni, dei governi o dei trattati inter­nazionali. Ma nei fatti non è così: i com­portamenti del singolo, pur non decisivi, sono invece rilevanti.

In qualche caso, tuttavia, la mancanza di azione potrebbe non derivare da un sincero disinteresse o dalla reale apatia. A paralizzarci, potrebbero anche essere la paura e la sensazione di impotenza di fronte a una minaccia globa­le.

Quando si misura il livello di cono­scenza di ognuno di noi, emerge una profonda ignoranza delle relazioni tra l’uso dei combustibili fossili e l’accumulo di CO2 e tra i gas serra e il cambiamento climatico.

Mancando queste infor­mazioni di base, i cittadini non riescono a capire che anche il loro stile di vita ha un ruolo nel determinare i cambiamenti climatici e che, modificandolo, si potreb­be contribuire a contenere il fenome­no. Infine, non bisogna dimenticare che nelle dinamiche di gruppo il conte­sto e l’approvazione sociale giocano un ruolo fondamentale.

La motivazione ad agire dipende sì dal nostro sistema di va­lori, ma anche dall’atteggiamento di chi ci sta accanto. E così le scelte sostenibili di alcuni possono diventare contagiose e influenzare i comportamenti di tutti, so­prattutto se ciò si associa a decisioni le­gislative che le accompagnano e le inco­raggiano.

Il senso di impotenza, insomma, può diminuire quando ci si sente parte di un gruppo o di una comu­nità di persone che agiscono in modo virtuoso. Basterebbe cominciare.

C’è bisogno d’informazione, di altruismo, di darsi una svegliata ma soprattutto di rispetto e di consapevolezza della necessità di un cambiamento da parte di tutti. Ora dobbiamo impegnarci al bene comune e occuparci di riscoprire quei valori ecologici a cui i ragazzi di tutto il Mondo credono e, seguendo l’esempio di Greta Thunberg, rivolgono un messaggio forte e chiaro ai leader mondiali: “State mettendo in gioco il nostro futuro con la vostra inattività, sul clima dovete entrare nel panico”. A unirli è la consapevolezza che gli stiamo rubando il futuro “la nostra casa è in fiamme ma possiamo ancora cambiare le cose”.

Il futuro del Pianeta è nelle nostre mani, ma appartiene alle prossime generazioni.

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