
Le grandi Banche mondiali e i Fondi d’investimento in fuga dall’alleanza sul clima
Le grandi banche mondiali e le società d’investimento sono in fuga dalla finanza climatica, un’inversione di rotta che segna la fine dell’alleanza Net Zero Banking Alliance (NZBA) per costruire un’economia globale a zero emissioni. La pressione della Lobby del petrolio (intesa come i Paesi più grandi produttori di oro nero), che ha smantellato l’accordo per finanziare le strategie sul clima con la Cop29 di Baku, persegue l’opera di manipolazione dell’informazione climatica.
JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley e i principali grandi gestore patrimoniali al mondo, come Vanguard – BlackRock – State Street, da migliaia di miliardi di dollari di asset gestiti, abbandonano l’Alleanza per il clima, chiamata Net zero asset managers (Nzam) per l’azzeramento delle emissioni di gas serra.
Una decisione che arriva a inizio gennaio 2025. Dopo anni di aperta ostilità politica e giudiziaria da parte della Lobby del petrolio nei confronti di qualsiasi politica orientata alla sostenibilità. E a pochi giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca.
i rischi climatici sono rischi finanziari
Banche mondiali e Fondi d’investimento membri della NZBA erano già ben lontani dal raggiungimento degli obiettivi volontari sul clima che si erano posti ma capitolare davanti alle Lobby negazioniste mina il dovere fiduciario dei gestori patrimoniali. Perché questo dovere fiduciario prevede anche di mitigare i crescenti rischi posti dai cambiamenti climatici per i risparmi degli investitori.
Si potrebbe obiettare che tutelare gli interessi dei clienti significhi anche accompagnarli nella transizione ecologica. Una transizione inevitabile e urgente. Visto che l’alternativa è lasciar imperversare una crisi climatica che entro il 2050 potrebbe mandare in fumo il 15% del prodotto interno lordo (Pil) globale. Ma è un’argomentazione che, a quanto pare, nei grandi Paesi produttori di petrolio, non fa presa. Ora la palla passa agli asset owner, cioè i clienti delle società d’investimento. Se prendono sul serio la crisi climatica, possono dimostrarlo. Per esempio affidando i loro capitali a qualcun altro.
E’ la fine della Finanza climatica?
Il concetto di “finanza climatica” si riferisce al trasferimento di risorse finanziarie dai paesi industrializzati, responsabili del riscaldamento globale, ai paesi poveri, che da tempo ne pagano le conseguenze, ma che non hanno le risorse per realizzare la transizione energetica e per presentare gli impegni di riduzione delle emissioni climalteranti NDCs. Nella Cop 29, svoltasi in Azerbaijan, si sarebbero dovuti mettere a punto definitivamente i meccanismi per il calcolo delle quote che i vari governi avrebbero dovuto versare, ma a causa delle interferenze dei lobbisti del fossile tutto si è ridotto a generiche buone intenzioni.
I presupposti per alimentare il “Fondo perdite e danni” (Loss and Damage) e rendere operativa la finanza climatica ci sarebbero: una volta stabilita la cifra globale da erogare annualmente basterebbe calcolare i contributi dovuti da ciascuno Stato ad economia avanzata, in funzione delle emissioni storiche e del prodotto interno lordo pro capite. È fondamentale che il denaro dato non crei debito, cioè che venga erogato sotto forma di sovvenzioni, in modo da non gravare con interessi altissimi sulle finanze di paesi già in difficoltà, o tutt’al più con prestiti a tassi minimi.
Per avere un’idea di quali investimenti sarebbero necessari per agire in modo realistico entro il 2030 contro il riscaldamento globale, così da contenere l’aumento di temperatura entro 1,5° e scongiurare lo scioglimento dei ghiacciai, basta guardare le accurate previsioni formulate tramite Agenzie internazionali che hanno tenuto in considerazione sia l’obiettivo di mitigare i danni già intervenuti, sia quello di incrementare adeguatamente le energie rinnovabili atte a sostituire le fonti fossili. È risultato dunque che sarebbero necessari 6.300-6.700 miliardi di dollari totali all’anno così suddivisi: 2.300-2.500 per i paesi più poveri e 40 per le piccole isole, 1.300-1.400 per la Cina, 2.300-2.500 per le economie avanzate.
Ma alla conferenza di Baku la cifra per cui si sono impegnati i paesi più ricchi è stata di soli 300 miliardi di dollari all’anno contro i 1.300-2.600 ritenti necessari. Una miseria se pensiamo che nell’ultimo anno le multinazionali del petrolio Chevron, Exxon, B.P., Shell, Eni e Total hanno guadagnato 1.000 miliardi di dollari, circa 3 al giorno, arricchendosi sulla pelle dell’intero genere umano; a loro sono stati erogati 142 miliardi di sussidi (Italia 90 miliardi, 3,8 del Pil, più degli USA). D’altronde da quando è stata ventilata l’evenienza che entro il 2030 si abbandonino le fonti energetiche fossili c’è stata una corsa forsennata al loro incremento tanto che nell’anno appena passato gli investimenti per sfruttare i giacimenti ed i sussidi sono più che raddoppiati.